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L’arte del gusto il gusto nell’arte: Lucca fra cibo, storia ed arte – parte 1

Esterno duomo

Secondo una recente inchiesta apparsa su Ansa, notizie online, una persona su tre immortala con uno scatto fotografico il piatto con il cibo che di lì a poco ingerirà spostandolo irrimediabilmente dalla sfera sensoriale della vista a quella più personale ed intima delle papille e del gusto.
Credo che, in estrema sintesi, questo fatto spieghi le ragioni di un itinerario che si ripropone ai nostri giorni attuale come non mai. Un itinerario tutto lucchese calato nel microcosmo culturale e gastronomico di una delle tante città italiane che compongono la tavolozza multicolore e multi sapore di questa Italia dalle mille facce.
Si possono così mettere a confronto elementi iconografici legati al cibo che nel tempo, sapientemente elaborati, sono stati usati a volte come strumenti mediatici per educare le masse e a volte hanno invece dilettato i ricchi lucchesi di questa città da sempre mercantile. Spesso così sacra e pia, ma anche così profana e a volte irridente delle miserie altrui.

Esterno duomo - facciata 1

La facciata della Cattedrale e i rilievi marmorei all’interno del suo loggiato di San Martino sono un vero e proprio compendio della vita e della capacità dell’essere mano nel XIII secolo, subordinato alla volontà di Dio, di affrancarsi dalla dura lotta che la natura gli impone per la sopravvivenza. Mangiare vuol dire vivere. Si nasce, si vive e si muore per volontà di Dio.
Alla base di un pilastro delle tre arcate che sorreggono la facciata composta da tre ordini di loggette sovrapposte, si trova l’albero della vita; l’inizio del bene e del male; l’inizio della genesi umana. Appare qui il primo frutto che tenterà Eva e la condannerà insieme ad Adamo al duro lavoro per la sopravvivenza della specie umana.
Malum ossia mela o male, a seconda dell’interpretazione che si voglia dare alla parola latina che racchiude in se la doppia valenza di sostantivo (il frutto) o di aggettivo (cattivo, malevolo).
Da qui la pianta si propaga poi, su su, come un tralcio di vite, nelle fasce marcapiano superiori, con tutta una serie, quasi senza fine, di foglie e frutti, Le tarsie marmoree compiute dagli abili scultori e taglia pietre Comacini condotte dal bravo capomastro Guido fra il 1190 e il 1211, mostrano la dura vita degli uomini medievali intenti a cacciare il più delle volte in una lotta corpo a corpo con orsi, cinghiali, cervi, lupi.
Caccia grossa, animali pericolosi. Animali questi che potevano mettere a in serio pericolo, ma anche sfamare per lungo tempo, intere famiglie e grandi comunità rurali.
La carne di cacciagione, spesso di grossa taglia che oggi chiamiamo “nera”, secondo gli statuti cittadini che regolamentavano le attività commerciali, era sempre presente sui banchi dei mercati di piazza san Michele. Lo era probabilmente ed occasionalmente anche di fronte a molti sagrati di altre chiese urbane. Cominciamo quindi a vedere proprio in questa epoca la città medievale e comunale che riemergere con fatica da anni nei quali la natura, dopo la caduta (tecnologica e sociale) dell’impero romano, aveva ripreso il sopravento sull’opera bonificatrice dell’uomo. Una natura dove sopratutto l’acqua, più che i boschi, aveva ripreso intere aree un tempo bonificate dalla centuriazione presente nella pianura alluvionale fra Lucca ed Altopascio. Interi campi coltivati in epoca romana da vite e frumento (le “cento fattorie romane”) erano ora coperti da quello che fu il più grande lago della Toscana:“il lago di sesto” a sei miglia da Lucca.

Esterno duomo - facciata 2

La scarsità di cereali imponeva una dieta ricca di frutta e verdure ma, a causa dei duri e pesanti lavori manuali, sopratutto ricca di proteine animali frutto della caccia.
Polli, oche, galline e conigli (carne bianca), anche se di allevamento da cortile, si mangiavano in occasioni speciali. Le uova invece erano alla portata quasi di tutti. La carne di bue, vitello o mucca (carne rossa) era una rarità. Buoi e mucche servivano i primi per il lavoro nei campi e le seconde per il latte. Grazie alla pastorizia, specialmente in collina ed in montagna, oltre alla carne di capra e pecora, molto più frequenti erano i formaggi. Anche l’olio, alimento da noi così pregiato e diffuso, era un prodotto di qualità e da usare con parsimonia.
Le carni il più delle volte erano cotte su fiamma viva prodotta dalla combustione di legna. Queste potevano essere anche spezzate all’interno di pignatte di creta o di calderoni.
I sughi cotti all’interno dei recipienti venivano aromatizzati facendone un gran uso dalle erbe spontanee di campo (mentuccia, timo, nepitella) o da verdure dell’orto (agli e cipolle). Pomodori, peperoni, patate e persino le castagne non erano ancora state introdotte. Per questo cibo nuovo si dovrà attendere qui a lucca sin al XVIII/XIX secolo.

Le spezie che troviamo oggi nei panforti medievali senesi (così comuni nei supermercati locali da trovarli a prezzi stracciati) quali il pepe, la cannella, chiodo di garofano, erano cose da ricchi e si usavano assai di rado sulle mense della gente comune. Addirittura il sale veniva anch’esso usato con parsimonia vista la difficoltà delle comunicazioni e dei trasporti dal mare.
Una natura quindi vissuta come madre e matrigna al tempo stesso.
Sotto il loggiato, come se si voltasse pagina, vengono scolpiti dalle stesse mani, circa trenta anni dopo la facciata, i mesi dell’anno descritti con il lavoro manuale del contadino.
La natura, ora è madre. In grado quindi di generare frutti e cibo grazie alla ingegnosa mano dell’uomo guidata, tuttavia, dalla suprema volontà divina che tutto misericordiosamente concede, plasma e ordina nello scandire del tempo ciclico dei mesi.

Mese dopo mese si alternano fra le altre attività il riposo invernale, la potatura e l’innesto delle viti, la semina , il raccolto, la produzione di vino e l’uccisione invernale del maiale.
E’ proprio il vino che rimane probabilmente, se comparato con tutte le altre produzioni, l’unico alimento costante nei secoli in tutto il mediterraneo, in Italia e in Toscana sin da quando fu introdotto prima dai greci e fin qui da noi dagli etruschi.
Prodotto a quei tempi in grandi quantità, di scarsa qualità, ma durevole nel tempo, era capace di fornire in un piccolo volume forti concentrazioni caloriche. Perfetto in una società medievale dove ogni alimento era deperibile, difficile da procurarsi e caro.

Bevevano tutti: donne, uomini, vecchi e bambini. I detti, sul vino, si sprecano: “il vino fa buon sangue”, “in vino veritas” , “Anche il vino c’ha la muffa, s’impara a bere” , “per San Martino ogni mosto è vino “.
E proprio quest’ultimo detto ci riporta ad osservare in facciata (l’originale si trova all’interno della chiesa nella contro facciata) la statua equestre del XII/XIII secolo che raffigura proprio il cavaliere romano Martino in atto di dividere con la sua spada il mantello simbolo del suo alto rango per darne la metà al povero infreddolito dal gelo. L’undici di novembre era forse uno dei giorni più attesi da tutta la popolazione locale. Proprio in quel giorno, per legge, gli osti e i vinattieri potevano sbottare il vino nuovo e somministrarlo ai propri clienti. Chi avesse contravvenuto a tale legge avrebbe subito pene sia pecuniarie che corporali. Per la celebrazione religiosa la statua veniva ricoperta di fini e preziose sete lucchesi e veniva posto un morso d’argento e oro alla bocca del cavallo. Questo gruppo equestre, secondo alcune guide cartacee fra le più attendibili, è una delle più incredibili realizzazioni scultoree del tempo. Forse di maestranza bizantina, da accostarsi al maestro che compì l’architrave sul portale del battistero di Pisa, rimane comunque forse la più grande statua equestre eseguita o superstite dopo il Marco Aurelio posto sul Campidoglio di Roma.

Questo post appartiene ad una serie di post dedicati all’arte ed al cibo
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2 commenti a “L’arte del gusto il gusto nell’arte: Lucca fra cibo, storia ed arte – parte 1

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